La Namibia è una parte d’Africa molto particolare, con una superficie di tre volte l’Italia, ma una popolazione di soli due milioni di abitanti; un misto di diverse etnie, tra cui Owambo, Afrikaner, Tedeschi, Herero, San, Himba, Damara…
E’ un paese che offre esperienze inattese,chilometri e chilometri senza incontrare nessuno, tratti di coste disabitate, parchi un paese di grandi spazi con il fascino del silenzio. Per il nostro viaggio partiamo da Windhoek, la capitale, portandoci subito verso nord-ovest per raggiungere il parco nazionale Etosha (vedi capitolo in calce). Una volta usciti dal parco, puntiamo verso nord per raggiungere la città di Opuwo, “capitale" della terra degli Himba (vedi capitolo in calce). Lasciata la città di Opuwo in direzione nord, ci ritroviamo nella regione del Kaokoland, un vasto territorio di oltre 1oo.ooo kmq, attraversato da montagne, pianure e profondi valli che soffre perennemente della siccità. Dalla pista principale piccole deviazioni di terra rossa ci fanno intuire la strada per raggiungere i villaggi degli Himba. Arrivati ad Epembe dopo una ventina di chilometri nella boscaglia, cerchiamo una sorta di villaggio,ma non troviamo altro che due tende vicino alle quali ci accampiamo per la notte e da cui, il giorno seguente, sempre in direzione Nord tra le montagne, su uno sterrato praticabile solo in fuoristrada arriveremo in una zona selvaggia dove il confine politico tra Angola e Namibia è segnato dalla profonda gola incisa dal fiume Kunene.
Qui si trovano le cascate di Epupa Falls, uno spettacolo emozionante! Il fiume, che prima è largo anche un centinaio di metri, improvvisamente incontra le gole e si stringe fino a pochi metri, per spiccare poi un salto di 40 metri con un fragore assordante ed un arcobaleno da sogno. Siamo in un luogo veramente fuori dal mondo con solo un piccolo campeggio e qualche capanna, in riva al fiume.
Ripartiti, paesaggi infiniti si continuano ad alternare nella nostra discesa verso sud; l’orizzonte che si perde tra piante di acacie e termitai rosso fuoco, il colore della Namibia. Rosso delle rocce del Wateberg, rosso di Sossusvlei. La solitudine è una costante, solitudine che spaventa i più, ma attira chi vuole evadere e rimettersi in pace con se stesso. Paesaggi fantastici dicevo, la savana con i suoi colori, il Pan con i miraggi e poi gli animali, così meravigliosi osservati nel loro habitat naturale. Ecco quindi il deserto del Namib: dune ovunque, un mare di dune che cambiano colore a seconda dell’ora del giorno, ma è al tramonto ed all’alba che danno il meglio di se. Sono enormi, alte anche 300 metri con la cresta affilata dal vento; ogni tanto un albero solitario e tanti tronchi che sembrano scheletri. Un paesaggio irreale che raggiunge il suo apice a Sossusvlei: una depressione che solo ogni tanto raccoglie un po’ di acqua che evapora immediatamente lasciando sali sul fondo.
E poi ancora a sud verso Skeleten Coast, dove le dune del deserto si tuffano nelle onde dell’oceano Atlantico. Ci fermiamo a Swakopmund, una mini Monaco di Baviera trapiantata qui con le tipiche case della campagna bavarese e le cento birrerie. Poco più a sud si trova Cape Cross, un tratto di costa dove risiede una delle colonie di otarie più grandi del modo (dicono più di 300.000 esemplari): uno spettacolo entusiasmante, che a malavoglia dobbiamo lasciare, perché l’ora di tornare verso Windhoek e il ritorno a casa è arrivata.
Qui, prima di riprendere il volo verso casa, una cena da “Joe’s” un ristorante dove si possono gustare delle meravigliose bistecche di manzo o di cacciagione tipica del posto (kudu, gazzella, coccodrillo) annaffiate da una altrettanto meravigliosa birra ghiacciata. L’ultima notte cala ed un emozionante spettacolo inizia: seppure ci troviamo in città il cielo africano brilla, lontano dalle luci della civiltà e le stelle brillano ancora più intensamente, forse per darci l’ultimo saluto.
Questo parco nazionale è situato del nord della Namibia, con un'estensione complessiva di 22.000 km². Nella lingua oshivambo (parlata dall'etnia ovambo che popola la regione), il nome "Etosha" significa "grande luogo bianco", con riferimento al colore del suolo del deserto salino che costituisce il 25% dell'area del parco. Il parco fu fondato nel 1907, epoca in cui la Namibia era ancora una colonia tedesca col nome di Africa tedesca del sud-ovest.
Con un'area di 100.000 km², il parco era all'epoca la più grande riserva faunistica del mondo. Negli anni sessanta il parco venne progressivamente ridimensionato, fino a raggiungere l'attuale estensione. Il parco Etosha ospita 114 specie di mammiferi, 340 di uccelli, 110 di rettili, 16 di anfibi e persino una specie di pesci. La parte centrale del parco è costituita dall'Etosha Pan, una depressione salina di 5000 km² (circa 130 km di lunghezza e 50 km di larghezza nel punto più ampio). Si ritiene che fino a circa 12 milioni di fa quest'area fosse un tempo un lago poco profondo, alimentato dal fiume Cunene; in seguito il Cunene mutò il proprio corso, e la zona si trasformò in un semi-deserto.
Durante la stagione delle piogge, il Pan viene talvolta alluvionato dai fiumi Oshana e Omiramba. Durante la stagione secca, il Pan torna ad assumere le caratteristiche di un deserto; il suolo salino, screpolato dal sole, assume il colore bianco intenso da cui deriva il nome "Etosha". In questo periodo il vento trasporta la polvere dell'Etosha verso l'Oceano Atlantico, fornendo tra l'altro al suolo delle regioni a ovest l'apporto di sali minerali da cui dipendono gran parte della fauna e della flora.
Le terre della popolazione Himba sono terre lontane, al confine con l’Angola e gli Himba sono una popolazione nomade, curiosa ed affascinate al tempo stesso, fiera nella sua gente a mantenere le tradizioni a dispetto dell’evangelizzazione e di un’occidentalizzazione sempre più pressante. Gli Himba sono di origine Bantu, come gli Herero di cui sono un sottogruppo; al contrario degli Herero sono stati costretti dalle popolazioni Nama e dalle pressante colonizzazione a lasciare i loro territori ed il loro bestiame e fuggire alla fine del XIX secolo in Angola dove, senza il loro bestiame e costretti a mendicare si ridussero alla miseria; da allora sono chiamati Himba che significa “accattoni”.
Solo nel 1920, con la riconquista del Kaokoland, ritornarono nelle loro terre riprendendo l’attività della pastorizia, ma l’appellativo gli restò. Gli Himba sono persone fiere ed orgogliose e con un alto senso estetico, dai corpi snelli ed atletici, abbelliti da un impasto fatto con terra ocra, erbe aromatiche e grasso animale per proteggersi dal sole. Uomini e donne Himba amano ornarsi collo, caviglie, fianchi e braccia con monili di metallo e perline di ferro; le donne che hanno avuto il primo figlio portano anche una conchiglia appesa tra i seni. L’abbigliamento è costituito da un gonnellino di pelle di capra e le donne sposate aggiungono in testa un ciuffo di pelle di antilope. Anche le acconciature sono soggette a particolari attenzioni: le bimbe hanno le treccine, le ragazze i capelli legati all’indietro e le donne trecce che impastano sempre con terra ocra e grasso. Il sesso opposto invece porta il capo rasato: ai bimbi due soli treccioni che scendono sul davanti a mò di corna, i ragazzi una sola treccia, tipo codino e gli uomini adulti due trecce raccolte in un berretto che tolgono solo nella loro capanna.
Vivono in capanne semplici, sistemate all’interno di un Kraal, il recinto. Le donne restano nelle vicinanze delle abitazioni con bambini ed anziani, mentre gli uomini seguono gli animali sempre alla ricerca di nuovi pascoli. Una particolarità degli Himba è la discendenza in via matrilineare che determina la grande importanza della donna in ambito sociale. Il bestiame, la vera ricchezza degli Himba, è ereditato per via materna ed è proprietà esclusiva della donna, mentre l’uomo lo gestisce solamente possedendo solo i buoi sacri.